martedì 4 dicembre 2007

Le mie prigioni e le mie evasioni


Giovanni Domaschi - Le mie prigioni e le mie evasioni


a cura di Andrea Dilemmi, Verona, Istituto Veronese ......,2007,


euro 18,00
Giovanni Domaschi
Le mie prigioni e le mie evasioni
Memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista


a cura di Andrea Dilemmi


Cierre edizioni / Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea,
2007, pp. X, 409, ill., euro 18,00.


Operaio, anarchico, antifascista, dopo aver partecipato alle lotte politiche e sindacali nella sua città il veronese Giovanni Domaschi (Verona, 1891-Dachau, 1945) ha trascorso quasi per intero il ventennio fascista rinchiuso in carcere o relegato al confino. Membro del secondo Comitato di liberazione nazionale di Verona, prima di essere deportato in Germania e di trovare la morte in un lager ha avuto modo di scrivere le sue memorie. Un testo affascinante che contribuisce a fare luce sulla mentalità, sulle convinzioni politiche e sulle scelte di vita di un operaio anarchico nella prima metà del Novecento. Un intreccio tra la storia comune di un militante di base e una vicenda biografica eccezionale (al pari di molte altre storie di vita di quegli anni), segnata dalla costante volontà di resistere al regime fascista e di lottare per la libertà.

Andrea Dilemmi è dottorando in Storia contemporanea presso l’Università di Verona, città dove vive e lavora. Nel 2006 la sua tesi di laurea è stata premiata con la borsa di studio “Città di Verona”. È autore del saggio Anarchismo e sindacalismo rivoluzionario a Verona dalla guerra di Libia al fascismo, in Socialismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario nel Veneto tra Otto e Novecento, a cura di G. Berti, Il Poligrafo, Padova 2004 e del volume Il naso rotto di Paolo Veronese. Anarchismo e conflittualità sociale a Verona (1867-1928), BFS, Pisa 2006. Nel 2004 ha ottenuto la borsa di studio “Pier Carlo Masini” per una ricerca su Giovanni Domaschi.

Mentre Henri Charrière alias “Papillon” si appresta a percorrere la «strada
della putredine», che lo porta al bagno penale della Caienna francese dopo
essere stato condannato, nell’ottobre del 1932, dal Tribunale di Parigi,
Giovanni Domaschi ha già all’attivo due avventurose evasioni dall’epilogo
sfortunato e altrettanti tentativi di fuga. La prima delle quali, messa in atto a
Lipari nel luglio del 1928 con Mario Magri, Giovanni Battista Canepa e
Alfredo Michelagnoli, è certamente la causa principale dell’indubbia notorietà
di cui Domaschi gode, all’epoca, tra i compagni di confino.
«L’ho conosciuto nel 1936 a Ponza quando, ai primi di quell’anno arrivò
preceduto da una aureola di combattente indomito»: Ugo Fedeli, uno dei
primi storici dell’anarchismo italiano, egli stesso militante anarchico, apriva
così nel 1961 un breve articolo a lui dedicato nel quadro di una serie di ritratti
sugli anarchici confinati durante il regime fascista2. Qualche anno prima,
nell’immediato dopoguerra, aveva scritto:
Il compagno Giovanni Domaschi, non è conosciuto dai giovani venuti a noi in questo
dopo guerra, ma è stato indubbiamente una figura delle più spiccate del movimento
nostro in Italia, particolarmente durante il fascismo e nella lotta durata più di
vent’anni per abbatterlo. I compagni, e non sono pochi, che ebbero occasione di passare
durante quest’ultimo quarto di secolo, in qualcuno dei numerosi penitenziari o
nelle isole di Confino, ha[nno] avuto occasione di conoscerlo e stimarlo. Questi anni,
venti, li ha passati tutti tra galera e confino, fermo, rigido, integro, sempre primo in
ogni atto di protesta, e fra i detenuti o fra i confinati, fu sempre uno dei più quotati3.
Il prestigio dell’anarchico veronese non traeva origine solamente dai suoi
meriti di «protagonista delle fughe più incredibili»4, un vero e proprio «indemoniato
»5 pronto a tentare l’evasione anche nelle situazioni più difficili: è la persona,
sono il suo carattere semplice, aperto e la fermezza di fronte alle imposi-
Prologo1
Occorrerebbe lo spazio di un volume per seguire il nostro
compagno nelle sue gesta.
(Vella R., Giovanni Domaschi, martire della libertà,
«Il Libertario», 25 aprile 1955).
Vivo soltanto per questo: evadere, evadere, solo o accompagnato,
ma darmi alla fuga. È un’idea fissa […] che mi
ossessiona. E realizzerò, senza esitare, il mio sogno.
(Charrière H., Papillon, Mondadori, Milano 1970, p. 361).
zioni del fascismo a farne, tra i confinati, un militante conosciuto e stimato.
Temuto e rigidamente sorvegliato, al contrario, dai suoi carcerieri: sarà uno dei
pochi confinati ad avere “l’onore” di essere pedinato di continuo da un milite
ad un metro di distanza. Francesco Fancello, compagno di carcere di Domaschi
nel IV braccio di Regina Coeli a Roma, ne sottolineava infatti «le eccezionali doti
di generosità, di coraggio e di indomita fermezza. […] In tutte le polemiche portava
un riposante umorismo e una giovialità inesauribile, che perdeva solo
quando si toccavano certi principi fondamentali a cui si conservava fanaticamente
fedele»6. Ernesto Rossi infine, anch’egli a lungo suo compagno di cella,
scriveva: «Abbiamo trovato tutti in Domaschi un ottimo compagno: intelligente,
profondamente buono e con un senso altissimo della dignità personale»7.
Già a breve distanza dalla Liberazione, dunque, Fedeli si preoccupava di
mantenerne il ricordo: memoria ancora viva in coloro che l’avevano conosciuto,
non altrettanto – evidentemente – tra i giovani antifascisti passati da poco
attraverso l’esperienza fondante della Resistenza. Di fronte alla grandezza,
alla tragicità di un evento quale la Seconda guerra mondiale e all’intensità
della scelta resistenziale, l’immagine delle lotte sociali del Primo dopoguerra
e delle persecuzioni patite durante l’intero ventennio fascista appariva già
sbiadita, nonostante il nuovo ceto dirigente fosse composto da quegli stessi
antifascisti che avevano subito in gioventù l’assalto al potere del fascismo e, in
seguito, lunghi anni di carcere e di confino; in breve, da coloro i quali avevano
alle spalle lo stesso vissuto di Domaschi.
Di fronte a quanto d’azione si è fatto nell’Europa occupata in questi anni di guerra,
di fronte a quanto fanno i nostri partigiani, il raid di Lipari appare come un
misero granello di sabbia nell’immensità del deserto. Ma, allora, la situazione italiana
era in silenzio. Con le leggi eccezionali e con un regime di polizia, con le frontiere
chiuse, tutto era immobile. Il raid di Lipari fu come un sasso gettato al centro
di un lago calmo in una giornata di sole. Attorno al punto toccato dal sasso, i cerchi
si formano, si moltiplicano, si estendono, e ridanno animazione all’immobilità,
vita improvvisa alla morte apparente.
Così scriveva Emilio Lussu commentando la propria fuga da Lipari, effettuata
nel luglio 1929 in compagnia di Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti, e
coronata dal successo8. Un passo che contribuisce a chiarire, anche nel caso di
Domaschi, la distanza della percezione e, assieme, le ragioni della nascita di
una memoria epica del “combattente indomito”. La quale, di fronte all’apparente
dicotomia rispetto a quella, più umana, del “buon compagno” intelligente
e gioviale («il bravo Domaschi», lo definiva Ferruccio Parri; «un giovane di
poche parole, intelligente e mite», Nitti9), ritrova la sua unità nel significato che
assumevano sotto il fascismo (ed ancor più in carcere o al confino) la coerenza
alle proprie idee, la volontà di non piegarsi e qualsiasi atto, piccolo o grande,
di disobbedienza. Che, occorre ricordarlo, aveva sempre dure conseguenze.
Una memoria breve, però. Custodita da chi si trovò a condividerne le esperienze,
riappare a tratti come un esile fiume carsico nella memorialistica antifascista.
In quella del movimento anarchico, eccettuati gli articoli di Fedeli e pochi
altri, se ne trovano tracce ancora più rare10. Dopo la Liberazione, portava il nome
4 Andrea Dilemmi
di Domaschi il gruppo libertario veronese animato da Randolfo Vella. Dal 1999,
la locale biblioteca promossa da un gruppo di anarchici è stata a lui intitolata.
Nella sua città natale la memoria di Domaschi è stata affidata, inoltre, a una
medaglia d’oro alla memoria conferitagli dal Comune in occasione del primo
decennale della Resistenza e all’intitolazione di una piccola via del quartiere
dove aveva abitato in gioventù, in quanto membro del secondo Comitato di
liberazione nazionale. Il suo nome compare, infine, tra i sette caduti del secondo
CLN cittadino in una lapide apposta nel 1989 sulla facciata del Municipio.
Oltre alle testimonianze e agli scarni segni del ricordo ufficiale, solo recentemente,
tramite il rinvenimento da parte di Adriana Dadà di un quaderno
autografo di memorie11 e di altri documenti all’interno del fondo Fedeli custodito
presso l’International Institute of Social History di Amsterdam12 e la successiva
acquisizione di un secondo quaderno autografo13 da parte dell’Istituto
veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, si è venuti in
possesso di materiale che invita ad approfondire la conoscenza della figura di
Domaschi, permettendo di metterla in relazione con i luoghi di vita, le scelte
esistenziali, il contesto storico e sociale14.
Un anarchico del Novecento 5